Io sono Lorenzo

Io sono Lorenzo

(Frammenti di vita)

Tutte le mattine stava lì sotto una grande quercia, a tessere con abili dita fili d'erba. Avrebbe voluto leggere e scrivere, ma senza gli strumenti necessari restava solo un sogno. Lorenzo tutti i giorni mangiava pane e formaggio; tutti i giorni solo le sue dita tessevano fili d'erba, ma lui, con la sua mente, correva lontano… un sogno. Accadeva così sin da quando era venuto al mondo insieme a suo fratello. Il fratello non tesseva fili d'erba e nemmeno mangiava pane e formaggio; aveva grandi aspirazioni anche nel cibarsi bene, così tanto da uccidere il vitello più grosso e invitare gli amici per farne grandi abbuffate.

Il padre e la madre, stanchi del duro lavoro sotto padrone, la sera notavano il temperamento dissimile dei due figli, l'uno così diverso dall'altro: uno si stringeva al collo della madre regalandole sogni, l'altro si stringeva alla vita con richieste, scuse e bugie, come il giorno che, per saziare la sua gola, inventò l'incidente di una capra, sì una capra caduta in un dirupo… costretto da quella avversità organizzò un banchetto e fece onore a quel buon pasto.

Passavano gli anni e Lorenzo dimostrava gratitudine alla vita ma sdegno ai soprusi, ai sogni irrealizzabili e, mentre tesseva erba con le dita, non gli bastava più la visione bucolica che ogni giorno si presentava ai suoi occhi: campi sterminati e mandrie sciolte come nuvole a terra che belano armoniosamente in una sinfonia magistralmente diretta, quasi fosse lì il più grande maestro della più nota orchestra dei primi del ‘900.

Passava il tempo e Lorenzo aveva già quattordici anni; quattordici anni, ai primi del Novecento, erano tanti per chi aveva iniziato a lavorare presto… per chi aveva un sogno, tanta agilità nelle gambe e tanta voglia di cambiare il proprio destino. Aveva solo pochi soldi in tasca, anzi non aveva mai potuto annusare il profumo dei soldi, non aveva quel dio tra i santini che adornavano il suo minimale letto, ma aveva voglia di fare e ogni tanto il fato regala anche qualche opportunità. In un paesino a pochi chilometri dal suo, che porta il nome benaugurate di un santo, viveva un uomo che, ogni qual volta incontrava Lorenzo al mercato dei prodotti della terra, lo osservava e qualche volta ci parlava pure.

Il loro non era uno di quei chiacchiericci di convenevole buona forma, perché l'uomo stava ad ascoltare il giovane ragazzo con attenzione e ogni volta apprezzava la ricchezza di spessore e di contenuto delle sue parole. Forse, ascoltando i sogni dell'altro, ogni tanto cresce in noi quel maledetto rimpianto per non aver abbracciato la nostra vera vocazione; altre volte, invece, ci urtano i sogni dell'altro, perché riflettono come su un vecchio specchio rotto le nostre sconfitte… ma non per l'uomo che abitava nel paesino che porta emblematicamente il nome di un santo: lui si affezionò a quel ragazzino tanto da voler essere artefice del suo avvenire.

In quell'epoca i transatlantici partivano da Napoli, colmi di anime che dal ponte sventolavano fazzoletti bianchi, non in segno di pace; la pace ognuno la portava dentro di sé e con essa l'amarezza di una terra sterile o matrigna, o solamente squarciata dalla povertà. Si vedevano persone di mille colori, erano i loro abiti che tingevano la nave, ma non era un arcobaleno; in mezzo a tanto colore si intravvedeva un marroncino slavato; i colori sgargianti erano di coloro che occupavano la parte più in alto della nave, quella dalle mille luci, dagli specchi incorniciati d’oro, dai quadri di donne dai tratti gentili, dalle posate luccicanti, dai cristalli sparsi nelle sale.

In un angolo, un’orchestra allietava ogni sera gli ospiti della nave, lo faceva per mesi, lunghissimi mesi. Quell'orchestra, come per volere di un Dio superiore, allietava anche Lorenzo, ma bisognava stare in silenzio, non fare rumore, ascoltare prestando attenzione. Nella stiva il suono degli orchestrali era quasi un messaggio di vita, quasi un disperato alito di vento che accarezzava i visi belli di chi "in fasce" aveva la madre lontana; Lorenzo era uno di quelli.

Cullati dall'oceano, i naviganti s’inventavano una nuova vita, dalla campagna assolata di un remoto paese disteso tra colline dolci e profumo di ginestra al tanfo di calze, calzoni, camicie sgualcite e coperte intrise di lacrime. Nascevano lì legami profondi ma di breve scadenza. Passavano notti gelate, annebbiate, canti di esseri che popolano il mare.

Mi sono chiesta più volte cosa avrà provato nel profondo del cuore quell'uomo bambino... quel dolce pastore dal viso pulito, dalla mente baciata dall'intelletto più arguto.

Giunse la nave in un porto lontano, un’isola accolse quel gruppo di anime, un’isola dal nome profetico “Isola delle lacrime”. Chissà quanti lasciarono l'involucro umano dentro la stiva, abbandonando alle maestose onde del mare l'anima, nell'abisso più profondo o nel cielo più limpido dove si intravedono sagome di gabbiani stagliati nel blu. Qui, invece, pianti e stridor di denti... ogni uomo come una bestia si doveva far visitare, mostrare la bocca e i denti; quella di Lorenzo sapeva di pane e formaggio e di un sapore buono.

Nel nuovo mondo venne ospitato da un parente lontano. Iniziò il suo cammino, come solo le menti illuminate sanno fare. Imparò la lingua del paese ospitante: solo così poteva esprimere chi era, cosa cercava; lì non c’era il vecchio uomo del paese dal nome del santo, non c'era il fratello che uccise il vitello migliore per soddisfare le proprie voglie, non c'era la cara mamma Agnese e lui non poteva stringersi al suo collo e sussurrarle di volerle regalare un sogno. Quel sogno ora era lì, si trovava nascosto da qualche parte, in qualche strada, dietro le tante vetrine, dentro un grattacielo in costruzione. La cosa che a Lorenzo faceva piacere era sentire il vociare di gente a lui familiare, lì tutti capivano tutto come se quelle lingue e dialetti, per necessità, fossero diventati parte integrante di un patrimonio genetico a tutti affine.

Lorenzo in America non tesseva più fili d'erba con le dita, ma tesseva amicizie. Entrò prestissimo a lavorare alla costruzione delle linee ferroviarie a Chicago; prima fu un lavoratore come tanti, poi qualcuno notò, che tutto veniva da lui annotato su di un bianco taccuino, tutto preciso, rigorosamente preciso ed in una lingua, la lingua parlata in America, perfetta. Lorenzo ben presto scalò la gerarchia nella compagnia. Da lì per lui si aprirono grandi soddisfazioni, gli venne affidata una squadra: era lui adesso ad organizzare il lavoro per tutti.

Passarono venti anni. Lorenzo per tutto quel tempo aveva mantenuto nel cuore un sogno - forse i sogni per lui erano linfa vitale - tornare in Italia, stringere al collo Agnese e regalarle il sogno promesso, dire addio a una vita di stenti.

Agnese oramai era vecchia, stanca; stringeva tra le rugose e callose mani le lettere del figlio, lettere che niente avevano di intimo, ma narrate da chi ben istruito le leggeva per lei. La corrispondenza di quegli anni era priva di intime parole: quelle dolci si celavano, pudiche, chiuse, nel cuore di ognuno. Non potevi consegnare i tuoi sentimenti a un foglio di carta: quel foglio sarebbe passato di mano in mano, di occhio in occhio, di giudizio in giudizio; così ognuno si limitava a scrivere: "Qui tutto bene; il tempo ci tratta male; il caldo è tanto forte come mai successo sulle nostre colline” oppure “Qui la neve ha raggiunto le abitazioni, spaliamo per fare un varco che ci porti nelle nostre case". Ciò che veniva chiesto ai congiunti in Italia era la preoccupazione del raccolto, quella era la priorità assoluta. Che cosa pensassero davanti a notizie foriere di vita, di morte, di feste patronali, di momento di svago e d'ilarità non è dato sapere. I sentimenti ognuno li teneva per sé, quasi privo della facoltà di esprimere il proprio io interiore: come dire che moriva d'amore per la moglie lontana? Come dire che avrebbe voluto stringere tra le braccia e assaporare il profumo delle lenzuola appena lavate al torrente e forse mangiare del pane appena sfornato? Come dire che quel paese distrutto lo portava nel cuore?...come poteva un uomo ai primi del ‘900 mostrare tanta dolcezza e sensibilità? A quell’uomo erano richiesti forza e coraggio; l’amore non era contemplato.

Dopo vent’anni Lorenzo tornò in Italia. Venne chiamato a servire la patria. Prese parte alla Prima Guerra Mondiale sul Carso... con uomini di tante diverse fazioni. Ancora una volta Lorenzo dovette attendere, aspettare di poter tornare a sognare come quando da bambino, sotto una grande quercia, tesseva con le dita fili d'erba. Anche la guerra finì... tornò a casa. In tasca questa volta non aveva i 30 danari prestati dal buon uomo, in tasca aveva un sogno da poter realizzare.

In paese camminava con fare deciso, indossando una giacca, la camicia dal colletto inamidato, la cravatta dell'epoca così ben definita e che due nastrini rendevano ancora più elegante e poi i capelli pettinati con cura; era un giovane uomo elegante... - Io l'ho visto così in foto, lì sulla lapide al camposanto, dove una tomba maestosa sembra suggellare il successo dell'uomo che veniva dall'America -.

Al suo incedere bisbigliava la gente del luogo: “Sarà il figlio di Agnese?...sarà l'americano che torna dopo quasi mezzo secolo?”

Ma oramai Agnese era vecchia e lasciare il lavoro svolto da una vita era cosa impensabile! Lorenzo accettò anche quello, aspettò, lui sì che sapeva attendere...

Intanto Lorenzo aveva rivisto tutti quelli che aveva lasciato.

Il fratello era diventato un padre di famiglia; al primo genito aveva dato il nome Lorenzo - l'avrà fatto per buon augurio o perché stimava quel fratello che stringeva la madre al petto sussurrandole il regalo di un sogno...

Acquistò case in paese, terre, boschi, campi di ulivi e querce e costruì un sogno: una casa di campagna con archi incantevoli tra terreni fertili e terreni aridi, terreni così estesi che l'occhio umano non poteva accompagnare; lì vicino, tra querce secolari, scorreva un fiume limpido e ricco di pesci. Iniziava così il sogno a prendere vita...

Gli mancava una donna da sposare, come conviene a un buon uomo in una società del tempo passato... così scelse una moglie giovane e bella, eterea, quasi fragile, con uno sguardo macchiato di cielo e il viso incastonato tra fili di grano maturo, sì quel biondo baciato dal sole.

Tutti assieme popolarono la casa con gli archi, un luogo che sapeva di cibo e di buono...

Agnese lì sedette, sotto un cedro secolare, e crebbe bambini: ogni anno per dieci anni un bimbo venne al mondo.

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